I borghi del Giro d'ItaliaL'Italia dei borghi

I borghi del Giro d’Italia 2021 – Tappa 8

Foggia – Guardia Sanframondi
170 km

Si passa ancora da una regione all’altra con la tappa 8. Questa volta si parte dalla Puglia e si arriva in Campania, ma in mezzo si recupera una fetta di Molise. È una tappa appenninica con soli due GPM: il primo ci riguarda ed è di categoria 2; l’altro, porta all’arrivo è di categoria 4, uno strappo.

E noi, dalla partenza di Foggia ci dirigiamo senza esitazione verso il Matese, in provincia di Benevento, la zona del devastante terremoto del 5 giugno 1688 (magnitudo 7).

Dopo aver percorso circa 120 km, di cui gli ultimi 20 in salita, giungiamo al nostro GPM di Bocca di Selva.

Questa è una località turistica a 1.395 m di altitudine che in realtà possiederebbe una piccola pista sciistica di 3 km, ma gli impianti sono fermi da 10 anni. Si spera che se ne decida il recupero prima che vada in rovina. Invece, c’è un interessante sentiero escursionistico che parte dal paese per raggiungere in poco più di un’ora di cammino la vetta del Monte Mutria (1823 m), denominata «Mutricchio», appartenente al Gruppo di Monti del Matese. Nel primo tratto si passa in una suggestiva faggeta e si attraversa un luogo chiamato «Cinque Denari», una radura dove cinque gruppi di faggi sono disposti a equa distanza da ricordare la carta dei cinque denari. In località Selvetella sono visibili due cavità originate dal brillamento di due bombe inesplose durante il conflitto mondiale. Procedendo la vegetazione si dirada e giunti in cima ci accoglie una distesa fiorita di orchidea dei pascoli, fiordaliso montano, zafferano alpino e anche la stella alpina. A togliere il fiato è il grandioso panorama che si apre intorno a noi. Il nostro sguardo spazia dal Molise alla Campania per poi passare all’Abruzzo e individuare il lago del Matese, le cime di monte Miletto, la Gallìnola,la Maiella, il Vesuvio. In una giornata senza foschia anche Benevento e il mare di Napoli.

Bocca di Selva è una frazione del primo borgo della nostra ottava giornata. Ancora una ventina di chilometri sul tracciato ufficiale e arriviamo nel capoluogo di Cusano Mutri, uno dei più pittoreschi paesi del Sannio nel Parco Regionale del Matese.

È un gioiello incastonato in una valle stretta nell’antico Sannio Pentro. Secondo gli storici avrebbe origine dalla città sannitica di Cossa, distrutta dai Romani con Telesia. Fino all’unità d’Italia Cusano faceva parte della «Terra di Lavoro» (il casertano), ma da allora fu aggiunto «Mutri», dal nome del Monte Mutria che lo domina. Il primitivo simbolo ideografico col quale venne rappresentato Cusano (la lettera “Q”) derivava dalla configurazione topografica del territorio, attorniato da una cerchia di monti con un unico sbocco, la gola di Lavello. Notizie certe si hanno dal 490 d.C. quando Papa Felice III inviò un servitore della chiesa a officiare le funzioni religiose nella cappella del castrum.

Il borgo beneventano ha punti di forza nell’incantevole paesaggio naturale, nel centro storico di rara bellezza, e nelle tradizioni suggestive.

Cusano è rimasto intatto nei secoli per cause geologiche, tanto da non essere toccato dal devastante terremoto del 5 giugno 1688, che rase al suolo i paesi circostanti. Ed è per questo motivo che il borgo e la sua struttura urbanistica sono oggetto di particolare attenzione da parte dei medievisti, oltre che della curiosità dei turisti.

Il centro storico è formato da case arroccate intorno al castello, a strapiombo sulla valle, stradine strette, portici, case con portali e finestre in pietra lavorata e tetti in pietra calcarea locale bianca, da cui si elevano i campanili e le cupole delle chiese. La porta di Mezzo è un architrave in pietra su una scalinata che un tempo divideva il nucleo originario dall’espansione quattrocentesca.

A Cusano Mutri la lavorazione della pietra ha un’attività di antica tradizione ed è qui, che si può ammirare il mortaio in pietra più grande del mondo, entrato nel Guinness dei primati.

Ma i record non si fermano qui, perché uno riguarda il Museo Civico del Territorio che ha sede nel palazzo comunale ed è diviso in due sezioni: Civiltà contadina e Geopaleontologia. Nella prima è conservato il cucchiaio di legno più grande del mondo, anch’esso è stato registrato nel Guinness dei primati: 5,32 m di lunghezza per 111 kg di peso. Oltre al cucchiaio da record nella prima sezione sono esposti circa 300 oggetti della cultura materiale, conservati in due sale tematiche.

Nella prima sala, quella del cucchiaio, sono ricostruiti ambienti di fine Ottocento, costumi maschili e femminili con accessori  e vari utensili, tra cui un particolare collare di ferro chiodato, usato dai pastori per proteggere il collo dei loro cani dall’attacco dei lupi. La seconda sala custodisce gi attrezzi di lavoro per pietra, ferro, lana e cuoio.

La Sezione geologico-naturalistica occupa una sala dell’edificio con pannelli fotografici e reperti di particolare valore didattico sulla formazione della catena appenninica meridionale e sui processi di fossilizzazione degli organismi provenienti da Pietraroja, località nota per il Parco geopaleontologico e l’importante sito fossilifero con reperti risalenti all’Albiano inferiore, (105-108 milioni d’anni fa). In mostra troviamo anche il diorama di Scipionyx samniticus, il piccolo dinosauro fossile conosciuto popolarmente come «Ciro»: il primo a essere scoperto in Italia e uno tra i più piccoli al mondo (ca. 50 cm). Ed è il dinosauro meglio conservato al mondo, tanto che gli organi interni si sono fossilizzati fino a livello cellulare e subcellulare.

Sono numerose le chiese e vi aleggiano leggende e miracoli. La più antica è la chiesa parrocchiale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo che sorge sulla spianata vicina ai ruderi del castello nella zona più alta del paese («Terra Alta»), sopra alla prima chiesa di San Pietro all’Elce nel 490. L’attuale edificio fu costruito nel 550, ma fu oggetto di rimaneggiamenti nel tempo e nel 1626 venne riconsacrata per l’ultima volta. A tre navate con tre portali in pietra presenta una facciata irregolare e all’interno, dietro l’altare maggiore, custodisce una pregevole icona lignea, comprovante l’influsso dell’arte barocco-bizantina su quella locale. Il campanile (1647)  è quadrangolare, con archi a sesto tondo e cupolotto terminale. Ha la campana maggiore detta «Vittoria» con incisi i nomi di Gerardo e Luigi Mita da Vignola, suoi costruttori che la fusero nello spiazzo antistante il castello nel 1786. Qui, la leggenda narra che durante la fusione ricche donne del paese abbiano versato nel crogiuolo monili di oro per unirli al bronzo sacro.

Circondata dalle abitazioni tra la Porta di Mezzo e il fortino, chiamato poi «la Torricella», la chiesa di S. Giovanni Battista vanta anch’essa un’antica fondazione risalente tra l’800 e il 950, venne ricostruita nel 1550 e poi ristrutturata nel 1663, passò da tre navate a croce latina con cinque navate. Un portale in pietra locale di pregevole fattura del maestro Ferrante da Cerreto consente l’accesso nell’edificio sacro che conserva un reliquario d’argento cesellato (XIV secolo), contenente una reliquia ritenuta una spina della corona di Gesù Cristo. Lunga 2,5 cm sarebbe stata portata dal crociato Barbato Castello di ritorno dalla Terra Santa. La Sacra Spina è tenuta esposta in primo luogo contro le calamità. Nel 1693 la Spina divenne colore rosso vivo come una candela accesa  per due volte, e ancora il 3 febbraio 1710 durante la processione di Sant’Onofrio. Un miracolo dell’agosto 1805 lo si è voluto riportare su un atto notarile. La reliquia venne fatta uscire in processione per fermare un terremoto, e giunta in località Monte Calvario, la sua punta divenne bianca durante la benedizione come se stesse per fiorire, e il terremoto sarebbe cessato. Ogni 3 agosto si tiene una processione verso la chiesa del Monte Calvario, in cui si venera la Spina Santa. In cima alla collina «antica vedetta longobarda» sono state piantate 3 croci.

Ancor più antica parrebbe la chiesa di Santa Maria del Castagneto, che si trova citata in un rescritto papale del 1342. Si dice che Teoderata, moglie del duca di Benevento Romoaldo I da poco convertita al Cristianesimo per opera del vescovo Barbato di Benevento, qui creò un cenobio femminile alla fine del VII secolo sui resti di un tempio italico. La fondazione sarebbe dovuta al ritrovamento di una icona della Madonna nel tronco cavo di un castagno.

Più vicina ai giorni nostri è la chiesa della Madonna delle Grazie dei primi del Novecento, situata sulla strada provinciale, ai piedi del centro storico. È meta di pellegrinaggi, perché qui riposa Giuseppe Vitelli (per i cusanesi «Zi monachë Santë), ovvero Fra Carlo di San Pasquale.  Vi morì dopo aver vissuto a lungo a Cusano, dove nacque, e la popolazione lo ritiene santo dopo avergli attribuito numerosi miracoli.

Da oltre un secolo, nel giorno del Corpus Domini, si tiene in paese l’Infiorata, ritenuta tra le più belle d’Italia. Realizzata con arte tratta tematiche sia religiose che sociali. Il momento clou della manifestazione è quando inizia la processione del Corpus Domini, che lascia la chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e si incammina nelle stradine, omaggiata insieme all’infiorata dall’esposizione lungo il percorso di lenzuola e tappeti dalle abitazioni.

Sulla strada provinciale che collega Cusano Mutri alla nostra seconda meta si trova uno dei luoghi più incantevoli del Matese, le forre di Lavello, denominato anche «canyon del diavolo» o «Colorado del Sannio». Si tratta di una serie di gole e piccoli canyon («lavello») scavati dalla forza erosiva delle acque del fiume Titerno e che in alcuni punti raggiungono la profondità di 30 m.

Il sentiero che costeggia il torrente ripercorre una mulattiera di epoca sannitica che porta a luoghi molto suggestivi: Grotta delle Fate, Ponte del Mulino, Muraglione, Ponte di Pesco Appeso, Caverna dell’Elefante, Grotta dei Briganti, Grotta delle Streghe e alcuni punti panoramici come Belvedere sulla Forra. Il percorso è lungo quasi 2 chilometri.

Ci sono anche le Gole di Caccaviola, che il Comune ha provveduto di un percorso avventura, e le Gole di Conca Torta, a pochi passi dal centro storico.

Sono solo 8 km a separarci dal secondo borgo affacciato sulla verdissima valle del Titerno, Cerreto Sannita, che da quel terremoto del Seicento venne raso al suolo e  uccise la metà dei suoi 8.000 abitanti. La prima attestazione dell’antico insediamento è riferibile al 22 aprile 972, quando l’imperatore Ottone I confermò ad Azzo, abate del monastero di Santa Sofia di Benevento, i suoi beni tra i quali

in Cereto cappella in honore S(an)c(t)i Martini cum p(er)tinentiis eor(um)

Il paese odierno, bandiera arancione del TCI, è il risultato di una ricostruzione durata otto anni a opera di uomini che vollero una «Città Pensata», senza mura, su un sito più a valle e su un suolo più stabile.

La zona scelta era un colle tozzo lambito a est e ad ovest dai torrenti Turio e Cappuccini e attraversato da nord a sud dall’antica via Telesina che raccordava Cerreto antico a Telesia.

Il Settecento che altrove rimodellò il volto di paesi e città, regalando dove una chiesa, dove un palazzo, a Cerreto realizzò un’opera completa, capace di sorprendere anche il più esigente dei visitatori.

Ha scritto Guido Piovene, giornalista e scrittore, che nel 1957 ha condotto il programma radiofonico Viaggio in Italia, reportage geografico e culturale.

Il nuovo Cerreto è strutturato su di un impianto regolare, interamente ricostruito su progetto di Giovanni Battista Manni e dietro volontà del conte Marzio Carafa. L’edificazione del nuovo centro abitato iniziò dopo la squadratura degli isolati che fece il regio ingegnere.

«La Piccola Torino», come in molti lo chiamano, è un concentrato d’arte, architettura e storia, dal grande fascino. Ci sono piazze e viali lungo i quali si incontrano facciate tardo-barocche, gioielli del Settecento napoletano, portali e decorazioni di elevato pregio. Le strade parallele sono tracciate con il righello, incroci ad angolo retto, isolati squadrati, edifici bassi, palazzi staccati l’uno dall’altro, larghe vie di fuga, piazze dove la popolazione poteva raggiungere in caso di scosse. Una città aperta, senza mura, dove c’erano: isolati a corte, per i palazzi dei signori; isolati a spina, per gli artigiani e gli operai; isolati a blocco, per gli edifici ecclesiastici.

È un bell’esempio di città ortogonale e antisismica e un modello di ricostruzione urbanistica e di ripresa sociale ed economica, fatto secoli fa, come mai è riuscito in tempi recenti con gli ultimi disastrosi terremoti che hanno colpito l’Italia. Qui, prosegue una tradizione artigianale di altissimo livello che fa delle ceramiche cerretesi, in particolare le acquasantiere, i piatti da parata e le “riggiole”, la produzione di una cultura famosa in tutto il mondo.

Tra i palazzi privati settecenteschi, dotati spesso di imponenti portali a bugne e dominati da mascheroni, si possono citare: Ciaburro, Ungaro, del Viceconte, Magnati, Nardella, Giordani, Carizza, Villa Langer.

E conta una ventina di chiese, tra cui la chiesa di Maria di Costantinopoli (1616) con resti dell’antica pavimentazione in ceramica locale, l’imponente palazzo dell’Episcopio (1696), la cattedrale della SS. Trinità (1739), con affreschi (1780) di Francesco Palumbo, dodici altari in marmo e due campanili sormontati da semicupole rivestite in «riggiole» di maiolica giallo-verde; la collegiata di San Martino (1733), progettata da Manni con la facciata preceduta da una scenografica scala a rampe ricurve.

La chiesa di San Gennaro, barocca con la cupola ellittica e rivestita con embrici maiolicati cerretesi, ospita la sezione d’arte sacra del Museo della ceramica, con statue lignee, tele, paramenti e oggetti sacri, fra cui un prezioso calendario reliquiario cesellato che contiene reliquie di diversi santi e un pezzetto della Croce. La sede principale del museo è ospitata nel settecentesco ex convento di Sant’Antonio. Sono esposti pezzi provenienti dalla raccolta dell’ex Istituto statale d’arte di Cerreto Sannita e da collezioni private (Biondi, Mazzacane, Pescitelli, Barbieri, Massarelli, Pastore). Particolarmente ricca e pregiata è la collezione del magistrato e storico locale Vincenzo Mazzacane, donata al museo con 400 pezzi per la più parte del Settecento.

Restano i ruderi dell’antica Tintoria Ducale dei panni lana, una realtà commerciale che nel Seicento aveva fatto ricca la vecchia Cerreto.

Nel 2012 è stato dato il via alla riscoperta archeologica dei resti del primo borgo, mai scomparso alla vista. L’area dell’antico Cerreto è stata oggetto di un programma di ricerca dell’Università della Campania. Tra il 2012 ed il 2015 sono state condotte tre campagne di scavo ai fini della valorizzazione e fruizione del sito archeologico. Nel 2015 il settore è stato sottoposto a restauro, tutela delle evidenze archeologiche e operazioni per permetterne la fruizione. Recandoci in località Cerreto vecchia, dopo aver percorso la strada di accesso al parco archeologico e valicato il cancello di ingresso, si apre un paesaggio ammaliante con uliveti secolari in alternanza a boschi di querce e di altre essenze. I resti archeologici del borgo primitivo di Cerreto paiono dialogare in armonia con quello nuovo, ai piedi del vecchio insediamento.

Un sentiero porta allo spettacolare ponte di Annibale, a schiena d’asino, che la leggenda collega al passaggio del condottiero cartaginese durante la Seconda guerra punica (216 a. C.). Realizzato in epoca romana sul torrente Titerno, è lungo 13 m, ha una larghezza di circa 1,50 m e ha una luce di 9,15 m.

A est del paese spicca Morgia Sant’Angelo, un blocco calcareo alto 35 metri detto «la leonessa» per la strana somiglianza a un grande felino. Lì, si trova una grotta abitata nel neolitico, che millenni dopo i Longobardi trasformarono in chiesa.

È tempo di riprendere il tragitto del Giro Rosa per fare gli ultimi 20 km e varcare l’arrivo di Guardia Sanframondi.

.Adriana Maria Soldini

 

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